Le vicende dei mercati finanziari italiani mostrano una lentezza a volte sconcertante. È il caso dei fondi di investimento: una forma di impiego del risparmio in apparenza ovvia, oggi del tutto consolidata ed ampiamente diffusa; ma per arrivarci c’era voluto oltre quarto di secolo. Se ne inizia a discutere negli anni cinquanta; a parole sono tutti d’accordo.
A inizio sessanta, la Banca d’Italia auspica l’introduzione di una adeguata disciplina che permetta il frazionamento degli investimenti e allarghi la base degli investitori: «L’ampliamento della facoltà degli investitori istituzionali, quali gli istituti assicurativi e previdenziali, di acquistare azioni, nonché l’istituzione di fondi comuni di investimento o eventualmente di fondi amministrati da lavoratori».
Tale normativa dovrebbe escludere le partecipazioni di controllo e garantire sufficiente pubblicità affinché gli interessati possano esercitare la «necessaria vigilanza». Dovrebbe essere introdotta la facoltà di includere azioni estere per diversificare i rischi e stabilizzare le oscillazioni dei corsi. Le proposte si susseguono, quasi una ogni anno, ma la riforma giunge solo nel 1983 (e dopo che si erano diffusi i fondi lussemburghesi). Così accade in molte altre materie – l’opa, le riforme bancarie, l’antitrust – introdotte di fatto per la necessità di adeguarsi alle regole europee.
Articolo tratto dal Libro “Destinazione Euro – Politica e finanza in Italia dal “miracolo” a Maastricht, 1957-1992” di Francesco Giordano.
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Destinazione Euro, Donzelli editore