L’occupazione femminile vive un periodo di espansione dal dopoguerra, ma rimane la più vulnerabile. Ad esempio, durante una recessione nei primi anni sessanta, si registra un drammatico il calo di un milione di occupati: ben tre quarti di questi sono donne, a testimonianza di un’occupazione più precaria e anche meno protetta dalle forze sindacali. Solo all’inizio del 1963, per esempio, passa la nuova legge che vieta il licenziamento, per la durata di un anno, dalla data del matrimonio: una prassi che diviene molto diffusa dopo che, qualche anno prima, sono introdotte regole a protezione delle lavoratrici incinte. È del 1963, quindici anni dopo la Costituzione, anche la legge che sancisce l’uguaglianza di genere nell’accesso a tutte le posizioni nell’ambito della pubblica amministrazione; la legge, di soli due articoli, recita all’art. 1: «La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera»; dal concorso per la magistratura saranno selezionate le prime otto donne, che entrano in servizio nel 1965. Ma sarà un percorso lungo: scorrendo cronache e organigrammi dell’epoca, in ambito politico, istituzionale o industriale, si trova una presenza femminile quasi inesistente, di fatto fino agli anni ottanta. È divenuto chiaro, negli anni, che l’eguaglianza di genere sui luoghi di lavoro è necessaria e doverosa per le donne, per il progresso civile e, peraltro, beneficia le stesse imprese e istituzioni. La direzione è imprescindibile, i passi avanti mai scontati.

Articolo tratto dal Libro “Destinazione Euro – Politica e finanza in Italia dal “miracolo” a Maastricht, 1957-1992” di Francesco Giordano.

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Destinazione Euro, Donzelli editore

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