Mentre vi godete le vacanze, non mancate di dedicare un pensiero, per quanto fugace, ai nostri mari e a quante ne hanno passate. Per esempio, a quella volta che si è deciso di riempire l’arcipelago toscano di fanghi rossi. È il 1972, la Montedison – grande industria chimica nazionale – termina la costruzione di un impianto a Scarlino, in Toscana, per la produzione di biossido di titanio, un additivo per vernici. Il progetto di Scarlino (unica produzione in Italia) presenta, in apparenza, un chiaro razionale.

Nasce dal desiderio di riassorbire manodopera in eccesso a seguito della crisi dell’industria estrattiva della zona; inoltre localmente si trova l’acido solforico necessario per la produzione; la vicinanza del porto di Livorno riduce i costi di importazione delle materie prime, provenienti principalmente dalla Norvegia; infine, il prodotto è un semilavorato, utile in molti settori attivi nel Centro e Nord Italia: cartaceo, gomma, ceramica, conceria.

Ma si ignorano del tutto gli impatti ambientali: commentano causticamente due scienziati locali: «Certamente la mancanza di una “educazione ecologica” (sia a livello di forze politiche, ma anche a livello sindacale) non portò a valutare seriamente le conseguenze che poi si sarebbero determinate sull’ambiente circostante».

Perché, con la produzione massiccia che si prevede, si genereranno altrettanto rilevanti quantità di scorie, nella forma di fanghi che contengono varie sostanze chimiche inquinanti. Di un depuratore neanche a parlarne: e quindi le scorie – fanghi di un acceso colore rosso, altamente tossici – finiscono tutte nel mare della Toscana. (segue)

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