La sanità privata convive con quella pubblica in un equilibrio delicato, oggetto di controversie e ripensamenti per tutta la storia recente.
La presenza di quella privata, infatti, non dovrebbe avvenire a scapito della qualità, dei livelli di servizio e cura di quella pubblica, che è universale e rappresenta, nel nostro ordinamento, un inalienabile diritto di cittadinanza.
Ma in un mondo di liste di attesa che si allungano e di sanità pubblica in cui, accanto a somme eccellenze, si alternano situazioni di degrado, l’equilibrio tra pubblico e privato diviene un tema delicatissimo e oggetto di iniziativa politica.
È un problema non nuovo, in cui a una quieta e non dichiarata deriva di privatizzazione si è in passato risposto con occasionali interventi correttivi, a sostegno del pubblico. Interventi difficili, che hanno richiesto una forte mobilitazione politica, un coinvolgimento della società civile, un’attenzione dei sindacati.
Cinquant’anni fa, per esempio, si commentava: “la presenza preoccupante dell’intervento privato, non in parallelo ad una organizzazione pubblica, ma con funzione vicariante, di sviluppo alternativo alla medicina pubblica; è quindi da sottolineare l’esigenza di un mutamento di tendenza che dia nuova forza e vigore all’intervento pubblico”.
Anche perché, oggi come allora, sono i ceti più deboli a farne le spese.
È necessario prendere atto “della grave sperequazione esistente tra l’assetto sanitario dei quartieri residenziali e quello delle borgate popolari … tra il privilegio della medicina privata e la carenza nella difesa della salute dei cittadini economicamente più deboli”.
Non è un documento rivoluzionario. È preso dalla relazione a un convegno del 1975, da parte di Giuseppe De Rita. Il convegno è organizzato dal Vicariato e parla della responsabilità di carità e giustizia dei cristiani della diocesi di Roma.
A leggerlo, sembra di un’attualità sconcertante.