Nel ventennio tra il 1951 e il 1971, quattro milioni di persone lasciano il Sud. Nel Nord-ovest invece il saldo migratorio positivo è di oltre due milioni. A Milano, qualche giornale parla di «invasione di meridionali».
Agli inizi degli anni sessanta, Torino e Roma hanno aumentato la loro popolazione di 400 000 unità, Milano addirittura di 549 000. La relativa opulenza del boom economico non oscura le notevoli diseguaglianze: il traguardo della quasi piena occupazione si accompagna a livelli salariali che ancora non riflettono l’accresciuta ricchezza del paese.
Le condizioni di vita degli operai sono molto difficili; ancora più disagiate quelle di chi ha lavori precari – edili, piccolo commercio, bracciantato. La tutela dei diritti dei lavoratori è limitata, i sistemi di protezione sociale poco evoluti e sostanzialmente gli stessi del dopoguerra. L’evoluzione dei profili occupazionali causa l’imponente trasferimento verso le grandi città, con i conseguenti problemi di urbanizzazione e di sviluppo residenziale. Milioni di italiani si spostano al Nord in cerca di fortuna, spesso con il «treno del sole».
Così definito dalle stesse Ferrovie dello Stato con un’ironia forse involontaria: per i più, il sole lo si lascia alle spalle; andrebbe forse chiamato il treno della nebbia. Tra l’altro, la migrazione interna è formalmente illegale fino al 1961, a causa di leggi ereditate dal regime fascista atte a contenere l’urbanizzazione.
Senza una residenza non si può ottenere un regolare contratto d’affitto e di conseguenza nemmeno un lavoro. Questa catena di irregolarità complica la vita degli emigrati e costringe chi trova un regolare contratto di locazione a sostenere canoni particolarmente esosi.