Ancora una volta è autunno, finisce la vendemmia, cadono le foglie e si discute della manovra finanziaria; e ancora una volta la discussione assume un carattere apocalittico: il deficit pubblico è alto, in apparenza fuori controllo.
Si accusa Bruxelles per la manovra correttiva, che richiede duri sacrifici, come se il deficit non fosse un problema senza l’Europa.
Risultò particolarmente complicata la situazione nel 1974 quando la crisi petrolifera, avvenuta pochi mesi prima, aveva portato l’Italia sull’orlo di una conclamata crisi finanziaria. Si rende necessaria, nuovamente, una decisa stretta da parte delle autorità.
Il capo del governo, il democristiano Rumor, introduce una serie di misure di emergenza – è la cosiddetta austerity. Commenta L’Espresso: «Tra anticipi d’imposta, ritenute d’acconto, ‘una tantum’ sulle auto, iva, aumento delle sigarette e tutta la più recente sventagliata di tasse e balzelli d’ogni tipo e natura, il prelievo fiscale è stato non soltanto brutale, ma addirittura feroce […] una torchiatura di questa intensità i contribuenti non la vedevano dai tempi del macinato». Le misure hanno successo: le entrate registrano un balzo del 23%.
Una parte non trascurabile delle entrate è derivata dall’operare della riforma tributaria, che introduce la ritenuta alla fonte per i lavoratori dipendenti, che registrano un sensibile aumento del prelievo. In un editoriale, Luigi Spaventa rimarca che lo Stato sa spendere, ma non incassare, se non per delega: il gettito fiscale si è accresciuto quando la pubblica amministrazione «ha affidato il compito dell’accertamento ai datori di lavoro […] è così avvenuto che è aumentato il gettito solo sui lavoratori dipendenti»; tutti gli altri continuano a dichiarare redditi esigui. Conclude l’autore: «un largo gruppo privilegiato di cittadini è esente dall’osservanza delle leggi fiscali». Fortuna che ora è tutto diverso.