L’emigrazione italiana: un viaggio di sfide e conquiste nel tempo

L’emigrazione italiana verso altri paesi registra diverse fasi. Quella transoceanica raggiunge i livelli massimi prima della prima guerra mondiale, tra il 1890 e il 1914. Le mete, in particolare, sono il mondo nuovo, gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile; poi nel primo dopoguerra anche verso Venezuela, Canada e Australia. Tra le due guerre l’emigrazione diminuisce: ne è causa, in larga parte, l’impatto delle limitazioni imposte all’immigrazione da parte di numerose nazioni riceventi.

Nel secondo dopoguerra, l’emigrazione riprende slancio, ma a quella transoceanica si sostituisce il movimento verso i paesi europei – Francia, Belgio, Svizzera, Gran Bretagna. Per chi parte il lavoro si trova, ma le condizioni sono molto disagevoli. Chi emigra viene assunto sulla base di contratti temporanei, a condizioni spesso al limite dello sfruttamento. Quasi impossibile la naturalizzazione: i Gastarbeiter in Germania e Belgio hanno poche speranze di divenire cittadini.

Ci si aspetta che tornino a casa alla fine del loro ciclo lavorativo. La svolta arriva solo nel 1968 quando la Comunità europea introduce la libertà di movimento e di soggiorno al suo interno per tutti i lavoratori. La direttiva («Relativa alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità»): permette la libertà di movimento e di soggiorno di tutti i lavoratori residenti negli (allora) sei Stati membri. All’art. 1: «Ogni cittadino di uno Stato membro, qualunque sia il suo luogo di residenza, ha il diritto di accedere ad un’attività subordinata e di esercitarla sul territorio di un altro Stato membro».

È un risultato notevole soprattutto per i molti italiani emigrati che possono, ora, accedere almeno formalmente agli stessi diritti dei lavoratori locali.

Scrivi un Commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *